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Perchè le nuove strategie di internazionalizzazione non partono dalla formazione?

Abstract

Organizzare il lavoro per far nascere un processo di internazionalizzazione, oppure lavorare per migliorare la propria presenza all’estero, oggi non è un processo facile, immediato e con un successo certo e duraturo.

È vero che l’internazionalizzazione è una voce importante per l’economia locale e nazionale delle aziende italiane di qualsiasi dimensione e categoria merceologica, ma non va dimenticato che moltissime aziende hanno cercato di penetrare nei mercati esteri senza una preparazione adeguata, senza una formazione specifica in grado di generare vantaggi competitivi in nuove strategie.

La rapida crescita dei mercati emergenti sta fornendo un nuovo impulso per le imprese a diventare sempre più di portata globale. Ma per essere protagonisti servono competenze e conoscenza aggiornate e moderne per distinguersi con le proprie strategie di internazionalizzazione.

Ogni azienda che si accinge a esportare o che vuole aumentare la propria presenza in diversi mercati esteri – che sappiano essere molto differenti tra loro – può avere difficoltà a raggiungere obiettivi di crescita se non sa come affrontare le svariate complessità tipiche dell’economia globale.

È noto a tutti che negli attuali scenari geopolitici perdura una complessità di natura economica che, unita alle condizioni politiche, rende il futuro dell’export incerto e difficile.

Per affrontare l’incertezza del tempo a venire crediamo che solo un’appropriata formazione riuscirà a dotare le aziende e le loro risorse di strumenti e nuove forze in grado di fronteggiare la concorrenza presente nei vari mercati, superare le varie barriere e attivare una comunicazione efficace per far conoscere i prodotti e generare un importante processo di vendita.

Per migliorare l’export servono molte informazioni che dovranno essere gestite con le competenze e conoscenze tipiche del commercio estero. In caso contrario diventa complesso curare la raccolta dei dati utili che saranno messi in gioco nella gestione del processo di export e import. 

Senza formazione, lo stesso processo decisionale diventa lento; invece, con nuovi percorsi formativi, si acquisisce anche la necessaria velocità decisionale. La velocità è alla base del successo nelle strategie di internazionalizzazione.

È questo lo spirito nuovo: riflettere su nuovi asset aziendali che riguardano la formazione per crescere nei mercati internazionali.

Dopo la pandemia da Covid, non ancora debellata, le imprese sono state costrette ad allargare la competenza territoriale nella scelta dei mercati esteri verso i quali attivare politiche di internazionalizzazione.

La scelta è coerente anche con le nuove opportunità di business che i nuovi mercati offrono, ma nel contempo sono i nuovi Paese target che possono presentare barriere di qualsiasi natura e scenari non previsti e neppure ipotizzabili.

Per affrontare e superare al meglio lo status quo politico ed economico servono competenze e conoscenze aggiornate in grado di ridisegnare le tradizionali attività di export. 

Ad esempio, bisognerà apprendere le nuove modalità dei pagamenti internazionali anche in virtù delle strategie di e-commerce, che imporranno a loro volta anche nuovi asset alla logistica, ai trasporti e al packaging. Non sarà di minor importanza il saper governare al meglio la variabile doganale. Nella pratica abbiamo elencato solo alcune delle tecniche di commercio estero che non sono mai state prese in seria considerazione sino ad oggi.

L’export management sta radicalmente modificando le sue logiche, che impongono di creare future strategie di internazionalizzazione, avendo ben delineata la grande e reale differenza che esiste tra l’affrontare i mercati della vecchia Europa e l’approcciarsi a nuovi Paesi distanti e culturalmente diversi.

È giunto il momento di abbandonare il vecchio modo di fare commercio estero. I nuovi paradigmi pretendono comportamenti differenti e nuove decisioni in grado di creare nuove dinamiche operative.

Come risolvere la questione? Attivando diversi percorsi formativi, utili a cambiare i comportamenti adottati fin qui verso la stessa formazione e che sono ancora largamente in uso: per lo più la scelta di fare poca formazione scegliendo ciò che piace o che si ritiene utile, usando l’alibi del “non abbiamo tempo”. Per crescere ci vuole tempo, necessario per formarsi, studiare, riflettere su cosa deve essere abbandonato, cambiato o rivitalizzato.

La formazione specifica per l’internazionalizzazione

Sosteniamo da sempre che la formazione supporta il bisogno e la necessità di crescere all’estero, poiché di fronte alle possibili difficoltà di sviluppo la formazione rappresenta uno snodo imprescindibile.

Come agire? Come attivare la formazione specifica per il commercio estero?

Sono possibili due risposte o riflessioni su questa domanda.

Il primo aspetto da affrontare sono i parametri organizzativi che solitamente sono applicati nelle scelte dei percorsi formativi da adottare. In genere si pensa erroneamente che dopo poche ore di formazione – percorsi di formazione di 2, 4 o 8 ore – si sia in grado di possedere quella competenza che permette di essere vincenti nei nuovi e vecchi mercati internazionali.

Non è possibile, inoltre, formare platee di persone senza analizzare il classico bilancio di competenze in ingresso. È davvero illusorio erogare una formazione in grado di dare le prime informazioni a chi è a digiuno, e contemporaneamente fare “alta formazione” per chi ha esperienza.

Ad esempio: 4 ore sulle operazioni intracomunitarie –  all’interno delle quali si deve concentrare una gran varietà di argomenti complessi,  quali: l’iva comunitaria e le tecniche legate al sistema Intrastat –  possono essere utili a chi possiede esperienze pregressa, ma non sufficienti per un neolaureato che non abbia mai trattato tali temi nel suo percorso di studi.

La seconda questione, forse più importante della nota precedente, riguarda ciò che avviene nel periodo dopo la conclusione della formazione. In altri termini la domanda che ci poniamo è la seguente: le competenze e le conoscenze apprese in aula sono state realmente trasformate in efficaci ed efficienti procedure utili a sviluppare il commercio internazionale aziendale? L’investimento sulle proprie risorse mediante percorsi di formazione ha incrementato la competitività aziendale sui vari mercati grazie a risorse interne maggiormente competenti e in grado di portare valore aggiunto alle strategie di internazionalizzazione?

È prassi concludere il ciclo formativo con una valutazione del docente. Ma tale valutazione non può essere il solo e unico strumento utile a misurare l’efficacia della formazione. Quest’ultima dovrebbe avvenire con la collaborazione dell’azienda, entro un pertinente orizzonte temporale, per capire come le risorse dell’azienda hanno trasformato in utile operatività quanto appreso in aula. 

Infatti, secondo la nostra esperienza, manca una qualsivoglia valutazione, da parte dei responsabili aziendali, dell’impatto della formazione e/o della mancata formazione sulle risorse umane dell’export team nella prassi operativa quotidiana o nello sviluppo di nuove azioni di sviluppo del proprio export.

In effetti, in quasi tutte le aziende, anche con grande vocazione all’internazionalizzazione, i responsabili aziendali o di processo dell’import o dell’export sono restii nel creare una misurazione della quantità,  della qualità e del livello delle conoscenze, competenze e abilità in possesso delle varie risorse prima di un percorso formativo. La riflessione verso la quale ci spingiamo è molto semplice: la formazione è stata utile per espandere gli obiettivi aziendali verso nuovi orizzonti? 

La formazione non termina con la fase d’aula, ma con la sua completa applicazione in azienda se non avviene tutto questo si sono creati due presupposti negativi:

Mancanza di fiducia dei partecipanti alle prossime attività formative,

Assenza totale di aspettativa nelle dinamiche di formazione anche più evolute.

Solo invece adottando le nuove “conseguenze” degli effetti della formazione le aziende possono avere gli strumenti di analisi del processo di import export utili anche a creare una “nuova forza e valenza del necessario vantaggio competitivo”.

In Italia, da sempre, l’export department è sempre stato vissuto e considerato come una sorta di stanza chiusa, nella quale solo gli addetti ai lavori hanno libero accesso.

Con tali presupposti l’azienda ha difficoltà a misurare sia il livello delle competenze che ogni persona possiede e mette in pratica quotidianamente, sia il progresso, specie dopo un percorso formativo che le stesse risorse sono in grado di applicare e di dimostrare.

In buona sostanza non si fa un preciso censimento del capitale umano disponibile per l’internazionalizzazione. Oggi i buyer comprano da aziende che mettono in evidenza anche e soprattutto il valore del patrimonio intellettuale delle proprie risorse.

Un nuovo approccio, a nostro avviso, potrebbe nascere con l’utilizzo di un file denominato “skill portfolio” della singola risorsa. In questo documento oltre al censimento delle specifiche conoscenze tecniche che possiede la risorsa (bilancio delle competenze in ingresso in azienda). Potrebbero essere segnati i vari percorsi formativi seguiti, in modo da avere un monitoraggio continuo del “training portfolio” (bilancio aggiornato o in uscita) di tutto l’export team. 

Questo documento potrebbe essere un processo che porta alla misurazione dei benefici della formazione per sapere dover intervenire nei futuri aggiornamenti sulle tecniche di commercio estero.

L’assenza di questi documenti potrebbe essere anche la concreta certificazione del mancato miglioramento o delle incerte crescite in nuovi mercati. Al contrario, se si riesce a misurare qualcosa, si è certi dove e come intervenire sul miglioramento del proprio export.

Se non si inizia a valutare quantitativamente le possibili crescite, man mano che ci si muove verso strategie che richiedono una maggiore conoscenza, ad esempio la comunicazione e relazione digitale, si rende l’analisi delle performance ancora più difficile da valutare.

È vero quindi che la consueta fretta crea ostacoli nell’attivare la formazione e di conseguenza ciò si riflette anche nella misurazione delle competenze detenute dai propri collaboratori.

Infatti, in anni di esperienza di formazione specifica per il commercio estero, non abbiamo mai notato neanche un tentativo di misurazione delle performance derivanti dalla formazione.

La complessità di misurazione del ROTI (Return On Training Investment) deriva anche dal fatto che esiste un netto distacco tra questi elementi:

  • Relazione tra formazione e performance aziendale;
  • Analisi della prestazione (apporto) individuale;
  • Architettura organizzativa dell’ufficio estero anche in relazione alla quantificazione delle competenze delle risorse.

La misurazione delle competenze e conoscenze distintive e specifiche, il cosiddetto livello di sapere e know-how dell’export team, anche se fosse adeguatamente e realmente misurato e valutato, da solo non è in grado di accertare, in modo approfondito, né la prestazione individuale né, tantomeno, quella organizzativa che si dovrebbe tradurre in performance aziendale.

È da riconoscere la difficoltà nel calcolo di un valore numerico del ROTI, ma vale la pena tentare creando un percorso che permetta di comprendere gli sviluppi organizzativi e di performance avuti per merito della formazione dei dipendenti  che rimane una delle componenti dello sviluppo della forza lavoro.

A differenza del passato il nuovo export richiede l’investimento di molti sforzi e risorse, quindi definire un programma di formazione varrà tutti i costi ed è una preoccupazione valida.

È vero che quando si affronta un percorso di formazione si crea anche una forte aspettativa di un concreto potenziamento generale, ma sarebbe più giusto parlare di un sostanzioso aumento di fatturato.

È certo, però, che con poca formazione e senza trasformare le nuove competenze in valide nuove azioni di sviluppo dell’export, raggiungere l’obiettivo dell’aumento delle vendite diventa molto difficile.

Si tende a credere che 4 ore di formazione corrispondano ad un adeguato aumento del fatturato di qualche punto in percentuale.

La formazione è un asset intangibile e lavora per il “rinvigorimento” collettivo di tutti gli asset intangibili che l’azienda pone nelle strategie di internazionalizzazione.

Il solo rilevamento della qualità/bravura del docente non può essere utile alla misurazione delle performance aziendali.

Inoltre gli investimenti in formazione vengono valutati specialmente in un’ottica di brevissimo periodo, quasi immediato, infatti è certo che si abbia la necessità di aumento del fatturato con l’azione formativa. Ma anche la formazione ha bisogno di tempo e la messa in pratica di ancora più tempo e spazio operativo perché deve impattare sulle persone e sui sistemi aziendali.

Attualmente le decisioni sui percorsi di formazione da intraprendere si concentrano in periodi dell’anno che corrispondono all’attivazione di richieste di formazione finanziata da risorse pubbliche o private racchiuse in fondi professionali.

Grazie a questo supporto gratuito o pressoché gratuito, le imprese tendono a fare incetta di ore di formazione per poi scoprire che è necessaria un’organizzazione ben precisa per fare una specifica formazione. Allora nascono richieste poco pratiche come, ad esempio, il corso di 4 ore sugli Incoterms® a quattro persone della stessa azienda. Condizione richiesta: ripetere lo stesso argomento a 4 persone diverse per ogni singola ora.

Questa è un’evidente contraddizione: si cerca di attivare la formazione perché si spera o si è sicuri che gli obiettivi raggiunti produrranno evidenti benefici e poi non si promuove la condivisione delle conoscenze all’interno dello stesso export team. 

Ogni risorsa avrà un suo specifico ruolo operativo all’interno dell’azienda e non è possibile frazionare le attività formative, il compito del docente è quello di erogare le competenze e aiutare a creare le performance aziendale, ma se il suo compito è limitato al commento delle slide non è possibile migliorare l’export aziendale.

Le performance sono create grazie al lavoro di tutti e non del singolo individuo.

La fase post-formazione è la vera innovazione nella formazione per l’import – export. Ripensare a una formazione per cui non si sia più obbligati a partecipare per poi fare la solita domanda: “ma poi le slide ci verranno inviate?”

Ecco che la formazione viene decisa, solitamente, dalla proprietà per le piccole e medie imprese, o dal responsabile delle risorse umane per le grandi imprese.

È ovvio che, in un panorama un po’ sconsolante, esistono per fortuna le dovute eccezioni, ma sono veramente pochi casi isolati.

Alla base esiste forse anche un veto culturale, come se il personale che chiede della formazione ammettesse di non essere all’altezza, di essere impreparato e che la sua esperienza lavorativa fosse poco “professionale”.

Invece dovrebbe essere esattamente il contrario, perché il formatore che progetta nuovi percorsi formativi deve studiare, capire come trasferire le competenze e le conoscenze che devono poi essere tradotte in performance.

Ultima riflessione: raramente la formazione viene richiesta dalle risorse che lavorano nell’export, significherebbe identificare la volontà di acquisire nuove competenze come un fatto prima di tutto mentale e poi comportamentale. Ma dichiarare l’esigenza di formazione è come ammettere la mancata preparazione. 

Allora meglio celarsi dietro a un sapere certificato da nessuno. Questo, purtroppo, è solo un risvolto di diverse questioni che nascondono altri aspetti non meno importanti.

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